Coinvolgendo circa 300 milioni di lavoratori in tutto il mondo, l'industria dell'abbigliamento rappresenta uno dei settori produttivi più significativi a livello globale. Recentemente, questa industria ha attraversato notevoli cambiamenti: il numero di capi di abbigliamento prodotti è quasi raddoppiato, mentre il tempo medio di utilizzo di tali capi si è ridotto drasticamente.
Di conseguenza sono nati seri problemi per l’essere umano: uno riguarda l’impatto ambientale di tali quantità e ritmi di produzione, l’altro le condizioni di lavoro e la dignità degli operai dell’industria tessile.
Quando un capo di abbigliamento si danneggia (spesso dopo pochi cicli di lavaggio), diventa inutilizzabile e viene gettato nei contenitori dedicati alla raccolta differenziata dei tessuti. Solo in Italia, nel 2019, sono stati conferiti circa 143.260 tonnellate di rifiuti tessili, corrispondenti a circa 2,42 kg pro capite. Una parte di questi indumenti viene recuperata per essere donata a persone in difficoltà o venduta sul mercato seconda mano. Tuttavia, la maggior parte dei rifiuti è troppo danneggiata per essere riutilizzata e viene quindi inviata in paesi meno sviluppati.
Qui, dopo una selezione minima, gran parte di questi tessuti finisce in discarica, dove si decompone, rilasciando sostanze tossiche nel terreno o nell'aria tramite la combustione, causando danni significativi all'ambiente. Secondo, ma non per importanza, c’è l’aspetto umano.
L’industria ormai delocalizzata che si occupa della produzione di questi prodotti, non permette di rispettare norme e sicurezza sul lavoro come quelli vigenti per esempio in Europa. Gli operai lavorano in condizioni pessime, pericolose per tante ore al giorno tra agenti chimici dannosi, senza diritti e per salari veramente miseri.
Proprio per questo motivo, il 24 aprile 2013 l'edificio Rana Plaza è crollato vicino a Dhaka, in Bangladesh. Più di 1.100 persone sono morte e altre 2.500 sono rimaste ferite. Il crollo è uno dei più grandi incidenti industriali della storia. Le immagini della tragedia fecero il giro del mondo, suscitando in molte persone la prima riflessione sulle condizioni di produzione dei loro abiti.
Negli ultimi dieci anni, si sono verificati numerosi cambiamenti: sempre più persone in tutto il mondo richiedono trasparenza e miglioramenti nell'industria della moda, sostenendo l'hashtag #whomademyclothes, utilizzato quasi un milione di volte.
La Fashion Revolution Week si tiene ogni anno durante la settimana che include il 24 aprile, data in cui si commemora il crollo dell'edificio Rana Plaza avvenuto nel 2013 a Dacca, la capitale del Bangladesh. Questo evento è organizzato da Fashion Revolution, un movimento globale che si impegna a promuovere la consapevolezza sugli impatti sociali ed ambientali della produzione e della delocalizzazione nell'industria tessile e dell'abbigliamento. Fashion Revolution è stato creato da due donne, Orsola De Castro e Carry Somers, con l'obiettivo di promuovere un'industria della moda pulita, sicura, equa e trasparente.
La moda sostenibile o responsabile è il settore della moda che si contrappone a tutto quello descritto finora, in cui si è più attenti alle caratteristiche dei tessuti come qualità e durata, e si pone attenzione sulla manifattura e sugli operai. È un atteggiamento differente rispetto al consumo, che spinge più a riflettere e a essere consapevoli di quello che stiamo acquistando.
Prima di precipitarci in un acquisto, ragioniamo e interroghiamoci sull’origine dei vestiti, cerchiamo di leggere le etichette, piuttosto che prendere solo in considerazione prezzi e modelli.
Noi tutti abbiamo un potere molto forte: possiamo farci e porre domande, possiamo fare delle scelte responsabili.